(Il libro si può acquistare sui principali store di internet, presso
la la CTL Editore di Livorno o richiedendolo direttamente a me tramite
messaggio. )
Recensione di Lorenzo Spurio
Vorrei
giungere in vista
di Itaca,
sentire la tua
mano sulla guancia,
come rugiada nel
cuore d’una rosa
(97).
Di recente pubblicazione è la nuova raccolta di poesie
di Stefania Pellegrini, autrice nata in terra d’Irlanda e da tanti anni
residente nei pressi di Aosta. Non si tratta della sua opera prima e numerosi
suoi testi sono già apparsi in rete, soprattutto sul suo sito personale «Parole
Nomadi», su varie uscite della rivista di
poesia e critica letteraria «Euterpe», nonché su antologie di premi
letterari.
Il nuovo volume, edito per i tipi di CTL di Livorno,
porta il titolo di Itaca nel cuore e
già da questa definizione che richiama il mito classico – e con esso il mistero
del viaggio – compendiamo che il percorso che la Nostra ci propone
d’intraprendere immergendoci nelle sue liriche ha qualcosa d’analogo a un
itinerario odeporico vale a dire di quella letteratura di viaggio che non è
semplice cronaca di trasbordi e viaggi fisici quanto – ben più spesso e in
forme ancor più profonde – di carattere esistenziale e interiore.
La Pellegrini ha deciso di suddividere il copioso
materiale poetico che qui trova posto in varie sotto-sezioni che, in realtà,
appaiono più come delle vere e proprie micro-sillogi che possono essere
concepite, lette e dunque fruite nella loro singolarità: sono autosufficienti
ai contenuti e complete e non necessariamente debbano trovare riflesso e
collegamento con le altre sezioni. Ed è la stessa Autrice a chiarire nella nota
introduttiva del volume quella che è stata la sua intenzione alla base di
questa necessaria e ben condotta cernita di titoli e relativa catalogazione in
sottogruppi. C’è una prima sezione che porta il titolo “La forma dei giorni”,
enunciato nel quale non facciamo difficoltà a percepire l’intenzione della
Nostra di volersi riferire a quegli aspetti della vita odierna, agli ambiti
colloquiali e transeunti dell’uomo contemporaneo, in balia tra pensieri e
ossessioni, a volte ostaggio di incomprensioni, altre pervaso da moniti di fuga
e sempre – comunque – fortemente attraccato alla vita concreta nella quale la
Nostra ritrova il senso delle cose in circostanze di meditazione, pausa,
riflessione, ricerca di sé e attribuzione di significati all’essenziale che ci
contraddistingue.
A rivelare questo (possibile) atteggiamento sono i
titoli stessi delle poesie che si trovano contemplate in questa prima parte:
“Sono così oggi”, “Cambiare prospettiva”, “Mia solitudine”. Sono, in effetti,
testi particolarmente intimi in cui l’interiorità della Nostra viene offerta al
lettore non tanto perché ne faccia testamento proprio quanto perché, senza
difficoltà né superfetazioni, può ritrovarcisi egli o ella stessa. Pensieri,
dubbi, divagazioni, riflessioni e rievocazioni, ma anche memorie, ricordi che
riaffiorano, promesse, visioni incantate o comunque piacevoli (non sempre in
linea con l’animo dell’io lirico) fanno da sfondo a questi componimenti. Penso
anche a testi quali “E nasce il giorno” e “Il mare”.
D’altro canto non possono – né devono – passare
inosservati gli scambi lirici nei quali la Nostra tematizza la vita nella forma
del percorso, tramite l’allegoria del viaggio, metafora nota del cammino
dell’uomo, viandante in terre che non conosce, scopre, caratterizzato da
continue dislocazioni per ragioni dettate da aspetti pratici della vita. Si
pensi ai componimenti “La locomotiva”, “Andata-ritorno” ma anche “In
quell’andare” e “Il viaggio” dove questo si fa particolarmente palese.
Noto è il mito di Ulisse che ritorna ad Itaca dopo
numerose peripezie di varia natura di cui Omero dà di conto in una delle epiche
più studiate e affascinanti dell’intera letteratura mondiale. Eppure al suo
ritorno Ulisse non viene riconosciuto da chi l’ha visto nascere e crescere (con
eccezione della nutrice Euriclea oltre che del cane Argo s’intende), dal suo
popolo e questo elemento – che vedrà la sua agnizione nel momento che il
personaggio considera valevole di far cadere il mondo di impostura e tradimento
che per i tanti anni di sua assenza si è creato – ha dato spazio alle
considerazioni critiche e alle interpretazioni più varie, a partire dalle più
banali per affrontare circostanze situazionali e logiche in effetti che non
hanno nulla di inferiore a un chiaro esperimento sociologico. Credo che il non
riconoscimento di Ulisse al suo approdare su Itaca non derivi dal semplice
fatto che lui è di molto cambiato, invecchiato, barba incolta e travisato da
mendicante, e dunque restituisce un’immagine assai differente da quella che
tutti hanno di lui, ma attiene anche all’impossibilità di saper cogliere
l’essenziale, l’incapacità di scorgere l’autentico, la miopia e la faciloneria
che portano l’uomo in senso generale ad essere connaturatamente più propenso al
giudizio (e al pregiudizio) che al ragionamento e al collegamento meditato. È
pur vero che Ulisse sia diverso, ma non solo fisicamente, dunque nel mero
aspetto, è un uomo formato, completamente maturo, temprato dalle fatalità della
vita, le cui vicissitudini lo hanno ispessito e reso saldo in una maniera da
averne fatto un uomo essenzialmente diverso da com’era. Eppure si mantiene in
lui la compassione e l’amore che nella scena con la ritrovata Penelope –
l’unica sofferente della sua assenza – risalgono in superficie. Ecco, la poesia
della Pellegrini ha qualcosa di analogo a questo comportamento ambiguo di
Ulisse: al di là del fascino arcaico verso il mare visto sia come ecosistema
puro ma anche come elemento di attraversamento verso spazi diversi e lontani
dai propri, nelle poesie della Nostra sembra di percepire, pur diluiti in
contesti emozionali introiettati ed esperiti come propri, i motivi del viaggio
e dell’evasione, dell’allontanamento e della crescita interiore e morale,
dell’asperità della vita, della condizione di esule, ma anche del ritorno, del
recupero di quel che si credeva perso e di cui, non senza difficoltà (proprio
come la memoria dei nostri cari ormai sottratti al tempo), possiamo
riappropriarci.
La seconda sezione del volume, dal titolo “Oltre le
pagine sporche”, con un sottotitolo inciso che recita “Incontri”, ha a che
vedere con la dimensione spiccatamente civile della Nostra, di cui sulle pagine
della rivista «Euterpe» si è già avuta, più volte, dimostrazione.
La Pellegrini abbraccia l’arma della poesia per parlare di drammi, situazioni
di difficoltà, condizioni di vita marginali e di sopraffazioni, contesti di
violenza, infanzia negata, situazioni d’indecorosa indifferenza e di crudeltà
umana. Sono testi mossi – in taluni casi – da episodi concreti, partoriti da
una cronaca efferata e iterata, così dolorosamente colpevole di riempire
l’informazione che ci giunge da angoli reconditi del mondo. Ma, altrettanto
spesso, anche da situazioni e contesti della nostra Provincia, che accadono
poco distanti da noi, nell’indifferenza e nell’incomprensione dei più, mix
deleterio che impoverisce il senso di concordia umana che andrebbe rinsaldato e
protetto. Doverosamente preponderante appare il tema del fenomeno migratorio: “Fiore del deserto / vertigine bronzea di
vellutata pelle, / occhi grandi incrostati di sale / colmi di mistero, e di
passione, / dalla furia del mare sgranati di terrore” (53) si legge nella
poesia “Amàli” che apre questa sezione del volume. Il tema ritorna in “Alya,
Alya” che ci narra di un altro naufragio divenuto eccidio: “Brucia le labbra l’acqua salata, / ostile,
ansiosa di tenermi con sé. // […] // L’acqua sale, le labbra, gli occhi
bruciano” (58-59).
Tra le altre rievocazioni di sciagure umane che la
Pellegrini richiama quali motivi trainanti di un duro affondo di sgomento e
denuncia vi è la shoah con un ricordo relativo a undici giovani fucilati a Nus,
in provincia di Aosta e dove l’Autrice risiede, nel luglio del 1944. “Non piangere madre, / un tempo c’è stato, e
non è stato vano” (55) recita l’explicit,
in un singulto di dolore che non svanisce con gli ultimi versi della lirica e
che, invece, pare raggrumarsi come uno spiacevole nodo alla gola. C’è una
grande partecipazione dell’io lirico in questi testi, lo si nota dal grande
garbo verso una materia spesso abusata e maltrattata – anche in poesia – fatta
oggetto di facili utilizzi, quando non addirittura di indecorose
strumentalizzazioni. Nelle poesie della Nostra si riscontra un pathos la cui intensità risulta
difficilmente configurabile a parole. Alto è il senso di pietas della Pellegrini, di quell’ascolto gratuito e doveroso verso
l’altro che, anche nella circostanza di episodi ormai lontani e consegnati alla
Storia, non dovrebbe venir meno. C’è il senso dell’umanità, trafitta dalle
sofferenze, ma anche il monito a non dimenticare per non cadere in baratri
analoghi. Se la Storia è testimonianza di vita, diviene doveroso e
imprescindibile per l’uomo d’oggi farsi testimone per le nuove generazioni.
Sguardo attento anche verso l’esodo del popolo curdo
sottoposto al continuo esilio da una terra che lo rende “appeso al filo della speranza” mentre vive disperato, sospeso, tra
“un lembo di terra nomade” e “un recinto di filo spinato” (61),
all’infanzia negata dei bambini siriani con “i sogni impigliati sul filo spinato” (63), finanche a un meno noto
genocidio degli indiani Sioux noto come il “massacro di Chivington” che vide
come scenario il Colorado nel 1864: “Agnelli
al suolo sacrificati, / sciabole sguainate, corpi come grano / mietuto sui
campi” (66). La Nostra dedica un componimento anche per coloro che, avendo
commesso reati, si trovano “relitti ai
margini del vuoto, / chius[i] nel grigiore delle ristrette mura” (67),
quelle degli istituti penitenziari. Storie di profughi, di immigrati che
muoiono nel loro tragitto che dovrebbe condurli in un paese dove cercano pace e
futuro, spose bambine, violenze assolute, bambini soldato (“Perdona mamma muoio, / preme un’ombra nera /
sulla coscienza”, 75), infanti martoriati nel corpo e assopiti nell’anima,
esuli in cerca di uno spazio che possa accoglierli, deportati nei lager, donne
stolkerate e abusate (“la voce melliflua
che ti adula / con parole spacciate per amore / […] / ti viola insistente”,
78), manovalanza straniera soggiogata e vilipesa da avidi caporali, sono i
nuovi martiri contemporanei.
Si riscontrano anche invocazioni e tentativi di
dialogo con la luna: “Parlaci / delle
nostre imperfezioni” (11), promesse (non facili) fatte a sé stessi, dettate
da un’altalenante convinzione dell’esistenza di motivi di forza atti a
imprimere un segno di cambiamento o a fortificare meccanismi di resilienza: “Vincerò le stupide paure / […] / Per
affrontare / le rotte del mare sconosciuto // […] // e troverò il coraggio /
per superare gli ostacoli” (15), convincimenti entusiastici dinanzi a
un’avvincente scoperta: “Ma oltre / lo
sguardo mira, / verso quel mare che tutte le contiene. / Ancora salperò!”
(19), finanche il riconoscimento di una vulnerabilità data dalla carenza di
presenze amorose e rassicuranti: “Posa la
polvere e lame di luce / l’odore dei ricordi, / aleggia tra le finestre e il
comò, / con il passo silente della sera, / e il marchio doloroso delle assenze”
(24) mentre
l’insicurezza diffusa della condizione instabile e logorante del dubbio crea
ansia “Cresce – prolifica / in cerca d’attenzione / come gramigna
nell’orto, / e insinua / granelli d’incertezza, / un tarlo nella mente / che
rode fin dentro il cuore” (28).
Con l’ultima sezione del volume, “L’impronta del
tempo”, è come se si completasse quel percorso circolare che la Nostra ha
intrapreso e concesso a noi lettori di intraprendere con lei. Ritornano,
infatti, ma in maniera ben più sentita e in forma quasi opprimente, i temi
dell’infanzia (“Mi guardo, mi riguardo /
cercando la ragazza nella foto / […] / Scopro a illudermi, / a abortire il
ricordo”, 88), dei ricordi (“sola mi
rifugio / tra le pieghe del ricordo / […] / mentre andavo incontro all’anse /
del grande mare, / incurante dei venti contrari”, 98), dell’inesorabilità
del tempo che porta la Pellegrini a ragionare su questioni supreme,
d’impossibile decodifica per l’uomo, eppure temi impellenti, ricorrenti, a
tratti dolorosi, necessari, che svelano un’accentuata dote intellettiva e
cogitante: “E mi chiedo perché, /
nell’essere non è il rimanere” (89) scrive nell’affascinante testo che
porta il titolo “Sfoglia il tempo la mia vita”. Grumi di nostalgia in quel “suono dei tuoi passi andati” (100) si
assommano a un senso di vera angoscia dettato dal sentimento dell’assenza (“Ti cerco – non ti trovo, / […] // Queste ore
a contare / il tuo ritorno”, 101) e trovano compimento, nell’adesione alla
prepotenza della realtà, che smentisce veli e smantella illusioni: “Cede la foglia il suo stare, / da un fiato di
vento si lascia rapire. // […] // Vedi? / Niente resta lo stesso” (105).
L’acqua, lo scivolare, lo scorrere, il fluire,
divengono in questa sezione del volume tutte sfaccettature di quell’andamento
sorgivo e impetuoso improntato al divenire e, in quanto tale, irrefrenabile:
immagini e riflessioni di un tempo che cambia perché progressivamente
s’allontana da quel passato che ha impresso le nostre esistenze. Tale percorso
– come già accennato – non sempre si mostra di facile accettazione per l’uomo
perché, adombrato da meccanismi inconoscibili e restio a conformarsi alle sue
precipue volontà, produce sperdimento e incomprensione: “non trovo risposte / ai miei richiami” (91), scrive l’Autrice.
Lorenzo Spurio
Jesi, 07/05/2021
Pubblicata su: "Blog LETTERATURA E CULTURA di Lorenzo Spurio"